Dopo aver cercato di focalizzare l’attenzione dei miei lettori sui problemi relativi all’eredità in comunione, vorrei ora, con le due storie che seguono, introdurre un nuovo soggetto: i trucchi e i trabocchetti della dichiarazione di successione.
Passo subito a spiegare il senso di queste parole narrandovi le vicende di cui sono stati protagonisti e vittime due dei nostri clienti: Paul di Boston e Louis di Chicago. Entrambi hanno una zia che muore senza testamento ma lasciando una cospicua eredità in Italia. Nel caso di Paul, oltre a lui ci sono dei cugini che vivono in Italia ad avere diritto ad ereditare, in quanto legati alla zia dallo stesso grado di parentela.
Nel caso di Louis ci sono invece una sorella ed un fratello dello stesso, che in quanto tali hanno dunque, ancora una volta, stessi diritti. In entrambi i casi soltanto uno dei parenti si fa avanti per reclamare l’eredità, ma attenzione, questo non perché vi sia un testamento che li nomina unici eredi, o perché gli altri abbiano rinunciato alla loro quota, bensì perché l’erede intraprendente crede di poter aggirare le leggi o di interpretarle a suo esclusivo vantaggio, molto probabilmente con l’aiuto di qualche avvocato disonesto e sicuramente pensando di approfittare dell’ingenuità o della buona fede dei parenti.
Il cugino italiano di Paul, Gianfranco, presenta allora la dichiarazione di successione della zia, deceduta a Boston nel 2000, all’agenzia delle entrate di Roma. A tale dichiarazione Gianfranco allega un atto, la cosiddetta dichiarazione sostitutiva di atto notorio, richiesta per legge, in cui afferma di essere l’unico erede della zia. Tale dichiarazione è però un’arma a doppio taglio, in quanto se da una parte gli consente di ottenere la registrazione del titolo a suo favore, dall’altra costituisce la prova della sua mala fede: dichiarando per iscritto di essere l’unico erede, infatti, Gianfranco dichiara il falso, reato perseguibile penalmente.
Ma Gianfranco pensa che a Paul mai e poi mai passerà per la testa di rivolgersi ad un esperto di legge italiana per accertarsi che quanto fatto dal cugino è corretto, ed è pure convinto che i tempi di prescrizione del suo reato e di maturazione di eventuali termini di usucapione si possano compiere prima che venga scoperto l’inganno.
Ma il cugino Paul è molto meno ingenuo di quanto lui pensi tanto che, dopo la morte della zia, vuol sapere cosa ne è stato della sua eredità, e viene così a scoprire l’inganno prima che sia troppo tardi per reclamare la sua quota. A Louis di Chicago capita esattamente la stessa cosa, nel suo caso però, il “tradimento di sangue” è ancora più drammatico, dato che non è un cugino, ma una sorella, ad orchestrare il piano di sottrazione dell’eredità.
La falsa dichiarazione della stessa, in atto che viene reso pubblico, ossia nella dichiarazione sostitutiva di atto notorio sopra menzionata, le causerà grosse grane giudiziarie e il risarcimento di danni ai fratelli, oltre alla persecuzione penale. La morale delle due vicende è dunque questa: se muoiono zii che non abbiano figli o nipoti diretti, i fratelli o i loro figli hanno diritto ad ereditare, amenoché diversamente disposto da eventuale testamento; ma non solo, poiché le dichiarazioni fatte da un parente gaglioffo non sono destinate a cambiare per sempre il destino di un’eredità quando più persone hanno gli stessi diritti, è giusto e doveroso, da parte di questi, impugnare la dichiarazione mendace per far valere i propri diritti, dal momento che la legge lo prevede e lo promuove.
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